L’emozione che fa bene

Per oltre un decennio della mia vita ho assaporato il mondo dell’arte contemporanea. Ho conosciuto le persone che popolano questo territorio, quelli famosi e quelli che invece lo sono di meno. Ho visto tante, tante opere d'arte. Mi sono emozionata, mi sono fatta coinvolgere, sono cresciuta a contatto con esse.

Di opere ne ho realizzate anch’io. Ho vissuto l’ebbrezza, la gioia, l’energia, la frustrazione, il senso di vuoto; tutte le sfumature delle emozioni che accompagnano la loro creazione, come anche il coinvolgimento intellettuale che ha come obiettivo dare un senso alla vita e al mondo in cui viviamo.​​

Poi, un po’ per interesse ma anche per caso, mi sono ritrovata a lavorare fuori dai confini del mondo dell’arte. In un certo senso sono anche diventata un’imprenditrice, o almeno parte di un gruppo di persone che prova a portare avanti un’impresa. Oggi la mia principale attività è il Business Coaching.

 Da questo osservatorio quotidiano, vedo che nel mondo delle imprese quella dimensione di coinvolgimento e sconvolgimento emotivo, percepita come parte naturale del processo di creazione del nuovo e della crescita nel mondo dell’arte, raramente riceve attenzione. Anzi pare che l’emozione non venga proprio contemplata come possibile risorsa e che possa dare un contributo al performance delle persone e dell’organizzazione. Piuttosto si tende a fingere che non esista, che non faccia parte di noi.

 Ma la verità è che appena si entra in un’azienda, in un ufficio o in uno studio, le emozioni che ci abitano si sentono. Le emozioni sono li e passano da persona a persona anche quando vorremmo che non fosse cosi.

Non sto certo dicendo niente di nuovo. David McLelland, sin dalle prime ricerche degli anni 50 sui temi comportamentali, attribuisce alle emozioni la dimensione causale più profonda dei comportamenti. Daniel Goleman ha spalancato la porta non solo a questa lettura, ma anche alle dimensioni applicative che può avere, nello spiegare i livelli di performance individuali e collettiva. Eppure, neanche autori e teorie di questo calibro hanno fatto davvero breccia nelle prassi quotidiane delle organizzazioni; o almeno non quanto sono riusciti a farlo in termini di diffusione della conoscenza o di vendita nelle librerie. 

Questo perché, tra la teoria e la pratica, come sempre, occorre un’impegnativa transizione fatta di comportamenti individuali e collettivi da consolidare nel tempo. 

 Su questo consolidamento comportamentale ci ha lavorato anche l’artista americano Jacob Tonski, assistant professor alla Miami University all’Istituto delle Interactive Media Studies. Nella sua opera Balance from within, vincitore dell’edizione 2014 di Ars Elettronica nella categoria arte interattiva, Tonski vediamo un divano antico poggiato soltanto su un unico piede che sfida la forza della gravita. In realtà non è perfettamente immobile: visto dal vivo il mobile oscilla continuamente da un lato all’altro. Infatti dentro il divano si nasconde un motore che l’aiuta costantemente a riacquisire la centratura. Se però qualcuno lo toccasse basterebbe una spinta piccolissima per far cadere l’intera istallazione.

 Tonski ha creato la sua opera come metafora delle relazioni umane. Per l’artista il divano è un mobile che invita alla condivisione, alla socializzazione. È un oggetto che letteralmente ci sostiene e le relazioni umane, per l’artista, sono come questo divano, in costante movimento. Devono essere nutrite ed alimentate per rimanere in equlibrio.

 La penso in modo simile. Credo che il benessere profondo nasca dall’essere in equilibrio con sé stessi e con gli altri e questo “essere” tutt’altro che statico viene fortemente condizionato dal nostro sentire emotivo.

Stare in questo flusso richiede fatica e a volte rende le cose poco limpide, specialmente quando parliamo di contesti organizzativi di grandi dimensioni dove l’equilibrio nasce tra tanti attori diversi. Il mio collega Roberto Degli Esposti dice: “L’equilibrio non è soltanto una dimensione fisica. In un Team è soprattutto una dimensione organizzativa, cognitiva ed emotiva”. Se sulla dimensione organizzativa spesso non abbiamo potere per gestire le cose come vorremmo, sulla dimensione emotiva sì. Come viviamo, elaboriamo e trasmettiamo le emozioni a chi ci sta intorno dipende esclusivamente da noi. Non è quindi un singolo emozione che ci fa stare bene. È la nostra abilità di stare nella danza delle emozioni che ci porta benessere.

 

[Articolo presente in “Persone&Conoscenze”, Rivista ESTE, n.127]

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