Cosa sento per il mio io?

Nel documentario diretto da Ed Perkins, Tell me who I am, due fratelli gemelli raccontano la loro storia alquanto particolare. A 18 anni Alex finisce in un incidente di moto e perde la memoria. A eccezione del fratello gemello, Marcus, non riconosce nessuno del suo passato né ha ricordi della sua infanzia o adolescenza. Sarà compito di Marcus riferire ad Alex la loro storia, ma invece di raccontare la verità di eventi dolorosi, decide di narrare dei ricordi falsi di una vita felice. Sarà soltanto alla morte della madre e alla scoperta di alcune foto della loro infanzia, più di un decennio dopo l’incidente, che Alex comincerà a dubitare del racconto del fratello e pretenderà di conoscere la realtà.

Il documentario racconta da un lato un processo falso di ricostruzione della storia e dall’altro i bisogni opposti dei due fratelli: Marcus vuole dimenticare ciò che è accaduto e Alex, per comprendere la sua identità, ha la necessità di scoprire la verità sul suo passato. «Noi siamo la nostra memoria. Siamo gli eventi che ci sono accaduti. Se non abbiamo questo racconto l’io non esiste», sostiene uno dei fratelli.

Lo sviluppo del sé, in realtà, è un processo di continuo cambiamento, proiettato nel passato, ma anche in un’idea di evoluzione futura. Piuttosto che un’istantanea statica ha senso considerare un sé fluido, dove stiamo continuamente rimodellando, riorganizzando, ripensando e riconsiderando noi stessi.

Secondo lo psicologo statunitense Robert Kegan lo sviluppo e la crescita umana possono essere divisi in cinque fasi di Meaning making. L’io e l’identità a esso correlata nascono in uno spazio consapevole di pensiero, dove riflettiamo sul senso di noi stessi e su chi siamo nel mondo.

Le prime due fasi per la maggior parte delle persone coprono il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza. Il terzo livello di consapevolezza del sé arriva subito dopo, ma questo non viene raggiunto da tutti. In questo stadio la persona è capace di assumersi delle responsabilità che vanno al di là del piacere immediato, comprende che fa parte di una collettività e indirizza il proprio fare in una direzione che lo aiuta a vivere e ad avere un ruolo all’interno del contesto sociale. Al terzo livello l’individuo è in grado almeno di comprendere il punto di vista dell’altro, le sue motivazioni, il suo sentire, le sue intenzioni. La costruzione dell’identità avviene grazie a questa considerazione: «cosa penso che gli altri pensino di me?» Secondo Kegan circa il 50% delle persone arriva a questa fase, ma non la supera mai. Invece, per essere capaci di navigare la complessità psicoemotiva dell’era contemporanea, con l’incertezza e la velocità di cambiamento sempre più presenti sia nel mondo lavorativo sia in quello privato, l’individuo dovrebbe possedere le qualità della quarta fase.

La persona al quarto livello è capace di staccare il proprio io dal condizionamento sociale. Ha l’abilità e la consapevolezza necessarie per scegliere i suoi valori, i pensieri che coltiva, le sue emozioni. Il mondo esterno o le pulsazioni interne non definiscono più la persona, ma è lui o lei che stabilisce la sua relazione verso il mondo.

Per i leader tali abilità sono indispensabili, ma il mondo lavorativo richiede questo tipo di self-leadership anche a figure che non sono in evidenti posizioni di guida degli altri. Sarebbe perciò importante identificare come attuare questo passaggio di maturazione. Chi arriva al quinto livello della teoria di Kegan (solo circa l’1% delle persone) ammette che non esiste una realtà oggettiva e universalista e riconosce i paradossi e l’inconsistenza del mondo che lo (o la) circonda insieme alle proprie contraddizioni interne.

Forse, infatti, più che chiederci «chi sono?» avrebbe senso farci domande proiettate al futuro e all’azione e porre anche l’attenzione al nostro sentire profondo, a cosa mi arriva dal mio io: «Chi voglio essere? Di cosa  voglio essere parte? Come esisto in relazione a chi mi circonda? Di fronte a me stessa che emozione sento?».

Tell me who I am – A volte è meglio dimenticare (2019) Docufilm di Netflix diretto da Ed Perkins. 

[Articolo presente in “Persone&Conoscenze”, Rivista ESTE, n.147]

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