Il corpo serve!

Nel film del 1993 “Demolition Man”, un’opera futuristica del regista e artista Marco Brambilla, vediamo Sylvester Stallone, nel ruolo di John Spartan, poliziotto grezzo finito nell’anno 2032, e Sandra Bullock, nell’atto di far l’amore…oppure quasi. La Bullock, nel ruolo del tenente Lenina Huxley, invita Spartan a fare sesso, offrendogli una cuffia che stimola l’esperienza erotica senza un contatto fisico. Nel “perfetto” mondo del futuro del film, dove mancano criminalità e malattie, il sesso fisico è vietato. Spartan però non riesce a comprendere il valore di questo nuovo approccio, sebbene sia molto utilitaristico.

Non c’è dubbio che la dimensione dove emerge di più l’aspetto della fisicità è proprio quella erotica, ma l’essere umano è un essere fisico anche in molti altri sensi. Da un anno e mezzo viviamo la virtualità costante, più o meno imposta, dove tante persone lavorano in remoto per la maggior parte del tempo. E anche in queste nuove condizioni siamo sempre fatti di un corpo. Lo notiamo quando, dopo ore attaccati a call virtuali, i nostri occhi accusano stanchezza, o all’improvviso sentiamo fame e sete. Facciamo di tutto per dimenticare il nostro corpo, ci obblighiamo ad esistere soltanto attraverso la mente ma, paradossalmente, tutto ciò ha un effetto negativo su questa.

Se tanto si è parlato dell’impoverimento della comunicazione interpersonale nell’epoca del Covid-19, meno forse è stato detto dell’aspetto esperienziale corporeo che perdiamo in queste condizioni e come ciò ci influenza. L’ufficio che frequentiamo è infatti un luogo fisico a tutti gli effetti. Per arrivarci dobbiamo spostarci. Non è soltanto un muoversi da un posto all’altro, perché la mente, nel viaggio, si prepara a ciò che verrà. Il viaggio di lavoro è un rito di spostamento che aiuta la mente a passare dalla dimensione della casa a quella dell’ufficio. Se da un lato viene considerato come uno scomodo spreco di tempo, dall’altro è un aiuto a mettersi nel giusto mindset per la giornata che verrà, oppure per chiuderla.

Se osserviamo l’ufficio come un film sensoriale, possiamo notare come le stanze abbiano un soundscape, come siamo circondati da colori, da forme capaci di farci sentire in un certo modo. Diventiamo consapevoli che ovunque andiamo, i profumi e gli odori sono sempre con noi. La memoria olfattiva è così radicata in noi che, se incontriamo un odore particolarmente presente nel nostro passato, veniamo catapultati indietro nel tempo, nel ricordo di esperienze a noi accadute.

Oltre agli spazi, nell’ufficio ci sono ovviamente le persone, che prima di tutto diventano incontri tangibili, dove noi sentiamo l’altro attraverso la sua persona fisica: più o meno consapevolmente notiamo com’è vestito, sentiamo il suo profumo, mentre ci saluta la sua voce entra nelle nostre orecchie. Per non parlare poi del contatto che si verifica nel classico handshake, piuttosto che nella confidenziale pacca sulla spalla. L’incontro dal vivo tra le persone, infatti, va molto aldilà delle parole pronunciate.

L’essere umano è un animale sociale. Vuole essere connesso, aggiornato su ciò che fanno gli altri. La perdita del contesto sociale e la solitudine attivano le stesse parti del cervello di uno stimolo di dolore fisico. Secondo Matthew Lieberman, uno dei padri fondatori del filone socio-cognitivo delle neuroscienze e autore del libro “Social: Why Our Brains Are Wired to Connect”, noi siamo fatti per stare in contatto con gli altri. Il nostro cervello ha bisogno di incontri fisici, dove può stare in una relazione ricca e nutriente con l’altro, leggendo la mimica, decifrando i gesti, creando un contatto completo.

In questo anno passato stiamo un po’ tutti vivendo il “test bed” del mondo di “Demolition man”. Per non contagiarci, abbiamo detto no a una grande parte della nostra umanità. Che paradosso: da tempo diamo un così alto valore alla nostra mente, ci chiamiamo knowledge worker. In relazione al lavoro, neghiamo il corpo e il mondo delle emozioni ad essa connesso. Adesso che da tempo ci viene richiesto di operare solo con la mente, solo in virtuale, ci rendiamo invece conto che per essere dei knowledge worker efficaci in realtà ci serve il corpo.

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