Dialogo con Camilla Alberti

Tra gli artisti rappresentati da Eccentric, firma che ha collaborato alla creazione delle carte delle emozioni del tool-kit di flowknow®, Camilla Alberti si focalizza su una ricerca del tessuto urbano contemporaneo, analizzandone le strutture architettoniche, sociali e naturali che lo compongono. Il soggetto principale della sua opera è l'essere umano, dipinto sia nel suo istinto primordiale che nella sua dimensione sociale. L'abbiamo incontrata per chiederle qualcosa di più sul suo lavoro e sul suo processo creativo.

Su quali temi si basa il tuo lavoro? 

Il mio lavoro parte da un’analisi sullo spazio, inteso come luogo relazionale, come un habitat organico, abitato da una moltitudine di specie che divengono microcosmi d’ibridazione. Più che fascinazione, io la definirei “necessità” poiché tutte le dinamiche sociali sono inscritte in questa pluralità di relazioni “io/noi l’altro (lo spazio)” e allora la questione diventa l’analisi dell’immaginario collettivo e il relativo orizzonte sociale, tecnologico, formale e naturalmente politico che una società si assegna in un dato momento.

 

Che fai per trovare l’ispirazione per un lavoro?

 L’ispirazione è il risultato di una ricerca continua svolta tramite l’osservazione della realtà, la visione di mostre e artisti contemporanei e, soprattutto, attraverso la lettura di svariati libri: da Brian Green a filosofi come Paul Virilio. Inoltre, la frequentazione di un’accademia come NABA mi dà la possibilità di vivere a stretto contatto con una serie di dinamiche artistiche che aumentano le possibilità di pensare a nuovi progetti.

 

Quali sono gli ostacoli che spesso ti accompagnano nel tuo lavoro creativo e come li affronti? 

Gli ostacoli sono sempre moltissimi qualunque sia la tecnica in questione, dalla pittura all’installazione. La fase progettuale è piena di problemi da risolvere considerando tutti quelli teorici (quindi i riferimenti dell’indagine artistica), quelli logistici, quelli riguardanti la presentazione finale dell’opera e soprattutto il budget che è un aspetto sempre dolente.

 

Che relazione hai con il pubblico?

È una risposta difficile da dare perché si lega molto al mio carattere personale. Non sono molto portata per la socialità e questo aspetto, in qualche modo, mi ha sempre permesso di osservarne le metodologie dall’esterno senza mai entrare troppo nelle dinamiche sociali di scambio diretto. Questo aspetto si ritrova anche nei miei lavori che diventano una sorta di restituzione analitica di un certo tempo e luogo.

 

Ci sono delle persone che hanno un ruolo nella realizzazione del tuo lavoro? Come ti relazioni con loro?

Collaboro con mio nonno nella realizzazione dei progetti confrontandomi con lui sull’aspetto delle proprietà dei materiali da impiegare, su dove acquistarli al minor prezzo possibile, come montarli senza rischiare che crollino ecc. Tutti quesiti logistici fondamentali. Per alcuni progetti pianifico sempre un aiuto esterno da parte di professionisti ad esempio nel mio lavoro Regressione ho collaborato con una psicologa. Inoltre ho i miei colleghi in NABA con cui discuto quotidianamente di aspetti riguardanti il mio lavoro o il loro instaurando un confronto molto produttivo.

 

Qual è l’impulso che ti spinge a fare arte?

Penso sia legato alla voglia di cambiare qualcosa nelle vite degli altri. Mostrare un’intuizione, una visione, un fatto… qualsiasi cosa che possa anche solo in piccola parte stillare una riflessione nella mente di estranei. Una sorta di necessità comunicativa.

 

Per te conta più il messaggio o la realizzazione della tua opera? 

Dal momento che, per quanto mi riguarda, non esisterebbe uno senza l’altra risponderei che occupano lo stesso posto sul podio. La ricerca teorica, nel mio lavoro, va di pari passo con quella pratica in una processualità di influenza reciproca.  .

 

Come influisce il contesto culturale nella lettura della tua opera? 

Nel libro Artecrazia si parla di governabilità, definita come “quell’esercizio del potere” per il quale non è più necessario imbrigliare e sottomettere “l’agire sociale”, basta riuscire ad organizzarlo e uno dei modi per farlo è attraverso lo spazio, citando M. Lazzarato “un ambiente che solleciti, inciti l’individuo a reagire in un modo piuttosto che in un altro”. Non soltanto nell’ambito artistico, la spazialità ha sempre avuto una relazione col corpo molto più profonda della semplice condivisione. Ha costituito e costituisce per l’uomo un monito sul comportamento da tenere, l’architettura ne è un buon esempio poiché ripartisce il mondo in spazi sempre più piccoli all’interno di ognuno dei quali noi assumiamo un ruolo definito dalla e nella società. L’equilibrio dualistico delle tre grandi opposizioni: corpo-spazio, artificio-natura, pubblico-privato sta vacillando a causa di uno squilibrio sempre più forte che ci conduce nell’ignoto del postumano. I cambiamenti umani all’interno della gestione del proprio spazio (habitat) registrano la variazione di tutte queste semi-coscienze collettive e io ne osservo e ne elaboro almeno una parte.

 

In copertina | Camilla Alberti – Cornaredo (2015-16). Acrilico su polpa di carta, 29,7x42x2 cm

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